Intervento di Monsignor Sigalini durante l'inauguarazione della Casa Alloggio
Catechesi di Mons. Sigalini su “Misericordia e perdono”
Falconara Marittima (14-9-2016)
La misericordia è il volto unico, determinante, definitivo di Dio Padre. E’ una verità da sempre conosciuta, amata, accolta nella chiesa, ma soprattutto di questi tempi tramite la insistente proposta di papa Francesco è diventata centrale dell’annuncio della fede in Dio. Da quel primo apparire che ci ha benevolmente sconvolti alla loggia vaticana di due anni fa, il volto di Dio misericordioso ha smosso tante persone, ha riempito i confessionali, ha ridato voglia di ritornare cristiani a tanti lontani o allontanati.
Che è soprattutto misericordia nel Dio di Gesù Cristo? Perché di Dio si dice che ha viscere di misericordia? Perché l’uomo si sente attratto dalla misericordia di Dio, la invoca, la spera e l’attende? Che risultato porta nella nostra vita il dono della misericordia di Dio?
Ad alcuna di queste domande tentiamo di dare risposta, soprattutto cerchiamo di scoprirla nella nostra fede personale e ecclesiale.
Insegnamenti di papa Francesco non mancano, documenti della chiesa pure. L’ultimo è il grande gesto di papa Francesco di aver inventato il giubileo della misericordia e di aver messo in moto tutta la chiesa e il mondo su questo meraviglioso volto di Dio. E’ un volto, una esperienza, un dono; non è una astrazione, non è frutto di razionalità o ragionamenti, non è teoria o discussione e dibattito, non è teorema cristiano: è il volto di un padre, visibile e fatto di carne e ossa, sentimenti e parole, gesti e abbracci, lacrime e sguardi in Gesù. Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre, così comincia l’annuncio dell’anno giubilare della misericordia.
Dio si era fatto misericordia in Mosè, nei profeti, nei patriarchi: aveva detto a tutti: “Dio è misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà…” poi l’ha detto con una Parola del tutto speciale, nuova, definitiva, viva, con la collaborazione della fede e della vita di una donna: Maria e la parola suprema di misericordia è Gesù di Nazareth.
Siamo assolutamente al centro della nostra fede oltre ogni astrazione e ragionamento, nella vita intima di Dio, da contemplare, da amare, come fonte di gioia, di serenità e di pace.
Perché ci siamo dimenticati di questo volto? Forse la nostra cultura che mette al centro l’uomo, che non riconosce nessuna legge morale, che cerca di scrollarsi di dosso ogni realtà soprannaturale, che vuole che ogni uomo sia legge a se stesso, che vuol definire che cosa è bene e che cosa è male, dimentica di fare i conti col peccato. Si tratta sempre e solo di delitti, di fatti perseguibili dalla legge, di delitti anche tremendi… ma che non portano l’uomo a interrogarsi sulla radice di questi mali. Il peccato non esiste più c’è solo una infrazione anche gravissima a una legge che può sicuramente cambiare e discolparci. Invece abbiamo addosso un macigno di male più grande di noi che non ci permette di essere buoni come forse anche noi vorremmo. “Vedo il male e al peggior mi appiglio”. Chi mi libererà da questo corpo di morte? Non si tratta di essere pessimisti o ottimisti, ci occorre andare all’ inizio di questo male nel mondo, alle sue ragioni errate, allo stesso demonio, principe del male. La cattiveria di noi uomini e donne è sempre grande e spesso quasi inspiegabile, se non si scova nell’intimo dell’uomo la radice di questo male, da cui solo Dio ci può liberare. Contro il male, come in tante altre realtà, non siamo autosufficienti.
San Giovanni XXIII aveva detto che proponeva il Concilio Ecumenico Vaticano II per “innalzare la fiaccola della verità mostrando una chiesa amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli staccati, allontanati, separati da lei. Il beato Paolo VI alla fine del Concilio ebbe a dire che il paradigma della spiritualità del Concilio, l’esempio, il comportamento, la dinamica, le mosse, i gesti di esso sono stati quelli del samaritano, che ha soccorso l’uomo piegato in due sulla strada da furfanti e ladri, da carnefici e violenti. Non è questa l’idea di papa Francesco quando dice che la chiesa è un ospedale da campo?
Forse ci siamo messi come cattolici soprattutto in difesa, abbiamo mancato di umiltà, di condivisione, siamo stati troppo sicuri, ci siamo attorcigliati su noi stessi e siamo stati troppo tempo a guardarci negli occhi e a creare fortini di certezze, anziché pozzi di ricerca della verità. Per noi la verità della chiesa era soprattutto un faro di grande luce, ma statico, fermo e chi si allontana non ne vede più la luce. Papa Francesco assieme a papa Benedetto invece ci dice che la luce della fede è una fiaccola che cammina con gli uomini, condivide speranze e fragilità, delusioni e ricerca; offre luce e accoglie esempi, si riaccende per l’intensità delle speranze degli uomini.
Questa fiaccola deve raggiungere ciascun cristiano, che prima di far luce agli altri fa luce alla sua vita, si riversa su di essa come amore misericordioso. I padri diventano tali perdonando e i figli purtroppo speso lo diventano sbagliando. Il figlio più grande della parabola del padre misericordioso, crede di non sbagliare stando sulle sue, rendendo la vita una osservanza senza cuore di compromessi, leggi, adattamenti, pretese e ricatti. Il figlio più giovane sbaglia alla grande, si trova a terra, senza dignità e senza futuro; ma scopre di avere un padre e ritorna, diventa finalmente figlio, perché non lo era quando si è fatto dare la sua eredità, quando si è affidato alla legge della successione, quando si è cavato la voglia di vivere da giovane spensierato. Lo è diventato nelle braccia accoglienti di suo padre. Felice colpa dirà più tardi sant’Agostino.
Così è la misericordia che risalta dalla banale domanda di Pietro a Gesù: Gesù, non ti sembra che quando è troppo, è troppo! Io perdono, sto zitto, ho imparato nella vita a non reagire troppo in fretta per non offendere, sto ad ascoltare ore e ore, non mi manca la capacità di attutire, di stemperare, ma qualche volta non se ne può proprio più! Soprattutto quando ti offendono senza motivo, diventano petulanti e ti fanno del male, ti fanno sentire uno straccio; hanno pretesa di giustificare tutte le storture che compiono nella loro vita; sono insolenti, violenti e sporchi. Vorrebbero sporcare anche me. Non ti sembra che bisogna dire basta prima o poi, anzi che forse tu con la tua bontà li stai coccolando troppo, hai sempre una parola buona da dire. Non ti sembra che ne approfittino. A 7 volte io ci arrivo, vuol dire che non mi faccio ricrescere nessuna pazienza. Ma bisogna dare un taglio. Il perdono che è? Un incitamento a delinquere?
E Gesù candidamente moltiplica a Pietro il tempo della perfezione giudaica. 7 è un numero che indica pienezza? Per il perdono non c’è mai pienezza che tenga. Dio è spropositato nel suo perdono. E’ 70 volte 7. E’ il numero perfetto oltre ogni paragone e limite. Il mio cuore è una speranza vera per tutti e per sempre. A te Pietro che avrai le chiavi del perdono nella chiesa, dico che il perdono non è cosa da contare come i soldi, ma è uno stile di vita, una strada definitiva, che una volta imboccata, non permette ritorni. Per questo è una speranza certa.
La misericordia è il criterio per capire che sono i veri figli di Dio. Se non c’è un comportamento che imita quello di Dio in Gesù non ci possiamo dire cristiani.
L’accoglienza del perdono è un atto di contemplazione, prima che la constatazione di un rimorso o di un pentimento. E’ incrociare lo sguardo di Gesù sulla nostra vita. E’ immergersi nel suo stato d’animo, nella sua innocenza assoluta, nella sua tenerezza. Non è guardarsi addosso per dire quanto siamo sbagliati, per aver vergogna di quello che siamo, per disprezzarci e registrare un altro smacco, un altro venir meno ai nostri impegni, un altro: non son capace di fare niente. Il bisogno del perdono cristiano non è “godere” di essere indegni, non è nemmeno dispiacersi di non aver avuto coerenza, ma è prima di tutto contemplazione di un amore, è capacità di lasciarci guardare con amore, è avere negli occhi lo sguardo di Gesù, risentire nel cuore il calore della sua amicizia, scomparire per far brillare la sua grazia. Il centro è Lui, non il nostro smacco o la nostra umiliazione. Spesso siamo più dispiaciuti di non essere stati all’altezza del nostro compito che di aver offeso Gesù. E’ Lui che dobbiamo mettere al centro. E’ Lui che dobbiamo contemplare in tutti i suoi gesti umanissimi di amore.
Il riscatto nel perdono
Il primo vero riscatto che si compie nella nostra vita di perdonati non è una soddisfazione perché ho risolto il mio problema, non mi sento più uno straccio, ho ritrovato dignità, posso sperare ancora… il primo frutto è che sono capace di perdonare anch’io. Anch’io non mi arrovello nella vendetta, nella rabbia, nella frustrazione, nella rivincita.
Non solo: “Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per guardare al futuro con speranza”.
Non solo: “La misericordia apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre oltre il limite dei nostri continui fallimenti.”, ma diventa l’architrave della mia vita come lo è della vita della chiesa. Non pretendo solo e sempre la giustizia, che è solo un primo passo, ma vado oltre mi faccio carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli. Il nostro linguaggio e i nostri gesti devono trasmettere misericordia, devono farla incontrare a partire dal nostro perdonare. Le nostre parrocchie, comunità, associazioni, movimenti, devono essere oasi di misericordia per tutti, perché godono continuamente della misericordia di Dio.
Il nostro perdonare non è quello del debitore che con un debito spropositato (Mt 18, 23-35): 10 mila talenti d’oro, prega il padrone per averne la remissione, la ottiene, ma poi trovato un suo dipendente che ha nei suoi confronti un debito assolutamente insignificante rispetto a quello che gli era stato condonato, lo prende per il collo e lo fa incarcerare. Questo comportamento che sembra strano, in effetti rappresenta il nostro modo sbagliato di accogliere il perdono di Dio.
Le cifre della sproporzione. Un talento vale dai 34 ai 35 kg di oro. Siamo nell’ordine di 350 tonnellate di metallo prezioso. Una colonna di 350 furgoni lunga 3 Km. Un debito impossibile da pagare. Un debito impossibile da pagare. Il poveraccio in umanità del vangelo ne è proprio sepolto. Come può sperare di risalire la china, di trovare anche solo un furgone di oro da restituire? Nonostante ciò questa immagine dei furgoni di lingotti d’oro di debito è sempre ancora una pallida idea di quello che Dio ci ha dato e del disastro che abbiamo fatto nella nostra vita e nella vita del mondo con il nostro peccato. Il debito non è una cosa, ma la stessa vita, la globalità della persona. Non abbiamo mai di che restituire.
Abbiamo bisogno ogni tanto di riflettere sui doni incalcolabili di Dio, gratuiti, che Lui ci ha donato, ma che diventano debiti perché ne facciamo scempio o li usiamo per rivoltarci contro di Lui. Sono i furgoni del nostro tesoro che va restituito al Creatore, che devono trovare la strada verso la sorgente e non verso la dispersione o la distruzione.
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La vita. E’ un bene senza prezzo. Quante persone avrebbero dato tutto per vivere un secondo in più. Quante persone sarebbero dovute essere morte invece sono sopravvissute a tutte le malattie e a tutti gli attentati. La vita è sempre dono di Dio. Riflettere su come la valorizziamo, la accogliamo, la custodiamo, la trattiamo, è sempre il primo grande compito che abbiamo nei confronti di Dio
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Il creato, la terra, il sole, la natura, sono il grande contesto in cui possiamo godere la vita, un bene prezioso che spesso è sull’orlo della distruzione per le guerre, è un patrimonio che viene distrutto e inquinato. La creazione è la dote che Dio ci mette a disposizione nel patto d’amore che stabilisce con noi e spesso noi la dilapidiamo stupidamente
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La sessualità: ci ha fatto uomini e donne, ha messo nella intelligenza, nella vita, nella conformazione del corpo, nei pensieri, nelle aspirazioni, negli istinti, il desiderio di incontro, di dialogo, la voglia di stare assieme, la luce che si accende negli occhi, quando ci si vede, la tensione, la ricerca delle bellezza, i pensieri inquieti, l’attesa, la musica per esprimere, la poesia per avere parole, tutte insufficienti per dare voce ai sentimenti, alle emozioni, la capacità di generare vita
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La giovinezza: sono gli anni della ricerca, della tensione verso ideali alti; la giovinezza è il tempo di una visione pulita della vita, dell’entusiasmo, dello slancio, della leggerezza rispetto al passato che è di altri; spesso invece è l’età della noia, dello spreco, della cattiveria senza motivo, della distrazione e della superficialità
Mettiamo su questi 350 furgoni tutto quello che abbiamo ricevuto da Dio
C’è il furgone della salute, della intelligenza, dell’amore, della capacità di lavoro, del benessere, della pace, della dignità
Questa colonna di furgoni l’abbiamo sequestrata, l’abbiamo fatta deviare nei nostri territori e ne abbiamo fatto scempio.
Il servo si illude di poter pagare; prega, ma si nasconde la verità, o forse crede che le cose si aggiustino con un colpo di fortuna, la morte del padrone magari, perché no! la classica incoscienza. Ce la farò, se mi metto di impegno non ci cascherò più. Sono i nostri illusi pensieri dopo ogni peccato che fa fastidio alla nostra tenuta interiore. Ci sono cascato ancora, ma non lo farò più. Signore ti prometto, starò più attento. E’ la preghiera dopo lo smacco di ogni fallimento, dopo l’effetto negativo di ogni droga o pasticca. Ce la farò. Lo dice anche l’alcoolizzato, se ne tormenta il drogato in quell’attimo di lucidità che gli consente la fine degli effetti devastanti delle sostanze. Il problema è solo mio. Il peccato fa più fastidio a me perché sono stato inadempiente che a Dio. Lui è solo un esattore, esigente, deciso e io ci faccio sempre una figura da pollo. E’ sempre e solo stizza, rancore e vergogna delle nostre debolezze. Una preghiera impostata così, un rapporto con i nostri errori di questo tipo ci porta solo a sentirci prigionieri di sforzi titanici. La salvezza, il paradiso non te lo guadagni, lo accogli con gratitudine. Penitenza non è sguardo ritorto su di sé. Ma sguardo alzato verso Dio.
Ed ecco allora la preghiera autocentrata del debitore. Che effetto avrà?
E’ stata una preghiera azzardata, ma ha avuto effetto. Dio ha abboccato, ha perdonato. La veglia penitenziale è riuscita bene, mi sono proprio vuotato il sacco. Mi è passato quel sudore freddo lungo la schiena, perché è proprio vero che Dio è buono. Mi sento un altro.
E’ stato perdonato, ma non ha ancora capito che cosa è il perdono, non lo ha ancora accolto, ha ancora una mentalità da schiavo, calca ancora con i suoi passi il perimetro di una cella, mentre Dio lo ha liberato in pascoli erbosi; abituato a vivere in una pozzanghera non sa rendersi conto del mare aperto. Gioca ancora con le barchette di carta. Non ha ancora capito che deve farsi nuovo.
Chi ti permette di accettare la pienezza del perdono è lo Spirito. Dio lo ha fatto libero, lui si sente solo liberato. Per accogliere il perdono occorre farsi aiutare dallo Spirito.
Era ancora ammalato di delirio di onnipotenza, il modello di ragionamento non è affatto cambiato. Quel che fa al suo debitore è ancora legato al suo “ti restituirò tutto”. Il suo comportamento è evidentemente crudele, ma è più sottile e infido di quanto pensiamo. Crede di essere già un salvatore, ma non ha ancora capito di essere un salvato, un comprensivo e non ha capito di essere un perdonato, uno che accoglie e non ha capito di essere stato accolto, un giusto e non ha capito di essere stato giustificato, uno che può esprimere amore, ma non ha capito che è stato tanto amato. Ma salvatore, comprensivo, accogliente, giusto, amabile è Dio, non Lui. Non gli passa nemmeno per la testa che queste qualità devono essere d’ora in avanti le sue, che il dono più grande del perdono è il cambiamento del cuore.
Proprio per questo il perdono di Dio è legato al nostro perdonare, è quel gesto di Dio che è legato indissolubilmente alla nostra libertà; Dio non riesce a perdonare se nella nostra libertà non ci lasciamo cambiare dal suo perdono. Il perdono torna indietro. Gli ritorna ancora addosso il debito, si sente legato.
Riscatto è anche fare opere di misericordia materiale e spirituale. E’ un linguaggio forse un po’ datato, ma sempre concreto e capace di farci fare passi di riscatto. Ecco quanto dice papa Francesco:
“È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli. Riscopriamo le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti.
Non possiamo sfuggire alle parole del Signore: e in base ad esse saremo giudicati: se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. Se avremo accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Se avremo avuto tempo per stare con chi è malato e prigioniero (cfr Mt 25,31-45). Ugualmente, ci sarà chiesto se avremo aiutato ad uscire dal dubbio che fa cadere nella paura e che spesso è fonte di solitudine; se saremo stati capaci di vincere l’ignoranza in cui vivono milioni di persone, soprattutto i bambini privati dell’aiuto necessario per essere riscattati dalla povertà; se saremo stati vicini a chi è solo e afflitto; se avremo perdonato chi ci offende e respinto ogni forma di rancore e di odio che porta alla violenza; se avremo avuto pazienza sull’esempio di Dio che è tanto paziente con noi; se, infine, avremo affidato al Signore nella preghiera i nostri fratelli e sorelle. In ognuno di questi “più piccoli” è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di nuovo visibile come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga… per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura. Non dimentichiamo le parole di san Giovanni della Croce: «Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore»”.